La mia trattoria ideale ( dal sito il Gastronauta.it):
“Dalle posate al menu: ecco come deve essere la trattoria a prova di Gastronauta
L’oste di una trattoria, che non trovate di certo tra i famosi 50 migliori ristoranti al mondo, mi ha mostrato un mio pezzullo di anni fa su un settimanale dove disegnavo il mio posto ideale. Più o meno la penso ancora così. Un lungo tavolone, un fratino per intendersi, di un legno consunto dal tempo.
Ho sempre preferito sedermi tra gente, il cibo è convivialità: non amo i luoghi “chiesa” o i posti confessionali, dove la recita del menu diventa una Messa in canto gregoriano. Oppure apprezzo i locali alla giapponese che mettono di fronte il cuoco al cliente: assistere ad alcuni movimenti di cucina, soprattutto quando i cuochi giapponesi sono intenti a tagliare, a sfilettare il pesce.
Torniamo alla mia trattoria, sul tavolo tovagliette (dicesi runner, non so perché) di lino grezzo d’antan, calici di livello (ma non necessariamente Riedl&Affini). Le posate dovranno essere old style, pesanti senza birignao da design, che di solito sono difficili da imbragare: forchette minuscole che scappano di mano, coltelli impraticabili, cucchiai micro. Insomma bando ai rosari dei patron che illustrano i loro gioielli firmati.
Poi cominciamo il film della serata: un menu semplice, senza conferenza stampa, di facile comprensione su cosa si mangia… Ammetto una breve parentesi sulle materie prime, ma non un racconto a memoria sul chilometro zero, o sul “bio bio, non avrai altro Dio”. I prodotti devono essere di certo “naturalmente biologici”, così vanno bene anche senza timbri, l’onestà ha più valore.
I piatti dovranno essere semplici, non ho preclusioni su inflessioni regionali o comunali o internazionali, l’importante è che non siano creati per “stupire&divertire”, ma solo per godere ciò che si mangia, sia una pasta e fagioli o un piccione cotto alle spezie o una cipolla caramellata. Soprattutto, non mi deve raccontare il cuoco che ha inventato lui la passatina di ceci con i gamberi o il gelato al parmigiano. Non gli credo!
Torniamo alla mia trattoria, sul tavolo tovagliette (dicesi runner, non so perché) di lino grezzo d’antan, calici di livello (ma non necessariamente Riedl&Affini). Le posate dovranno essere old style, pesanti senza birignao da design, che di solito sono difficili da imbragare: forchette minuscole che scappano di mano, coltelli impraticabili, cucchiai micro. Insomma bando ai rosari dei patron che illustrano i loro gioielli firmati.
Poi cominciamo il film della serata: un menu semplice, senza conferenza stampa, di facile comprensione su cosa si mangia… Ammetto una breve parentesi sulle materie prime, ma non un racconto a memoria sul chilometro zero, o sul “bio bio, non avrai altro Dio”. I prodotti devono essere di certo “naturalmente biologici”, così vanno bene anche senza timbri, l’onestà ha più valore.
I piatti dovranno essere semplici, non ho preclusioni su inflessioni regionali o comunali o internazionali, l’importante è che non siano creati per “stupire&divertire”, ma solo per godere ciò che si mangia, sia una pasta e fagioli o un piccione cotto alle spezie o una cipolla caramellata. Soprattutto, non mi deve raccontare il cuoco che ha inventato lui la passatina di ceci con i gamberi o il gelato al parmigiano. Non gli credo!
Ora la carta dei vini: mi rifiuto di consultare quelle tipo Bibbia, dove attualmente i rossi risalgono ai nonni (le annate sono sintomo dell’andamento commerciale), mi piacciono soprattutto quelle fatte in casa dal patron, senza interferenze dei voti delle guide o stampate dai rappresentanti, così forse potrò finalmente bere qualche chicca originale.