Il social eating? Deve seguire le stesse regole dei ristoranti
Da: LaStampa: Nel 2014 il fenomeno ha avuto un giro d’affari di 7,2 milioni di euro. Le cifre cresceranno ancora: perciò alla Camera è allo studio un testo per regolamentare l’attività di chi si improvvisa cuoco e trasforma la casa in un locale
È il fenomeno dell’anno: trasformare casa propria in un ristorante, improvvisandosi cuochi per un giorno. Social eating, si chiama così, e ha dei numeri strabilianti: soltanto nel 2014 ha avuto un giro d’affari di 7,2 milioni di euro. Gli italiani con il pallino per i fornelli, che offrono un posto a tavola per pranzi e cene, aperitivi e degustazioni a invitati paganti conosciuti attraverso social o piattaforme specializzate sono già settemila. I dati li fornisce uno studio di Confesercenti, secondo cui nel 2015 le cifre cresceranno ancora, in vista di una probabile impennata nel 2016.
Il tema è caldo, sotto molti profili. Tanto che l’associazione dei commercianti ha, da tempo, cominciato a studiarlo. E la domanda da cui è partita per questa analisi è: «L’home restaurant è soltanto una passione oppure può essere definito una professione?». Esmeralda Giampaoli, presidente di Fiepet, il gruppo di Confesercenti che riunisce i titolari di locali pubblici, non ha dubbi in proposito: «La seconda». E spiega: «Abbiamo notato che, sempre più spesso, gli eventi pubblicizzati non sono sporadici e nemmeno a prezzi contenuti. Si tratta, cioè, di serate a cadenza quasi fissa, per cui ogni commensale arriva a spendere anche 40 o 50 euro, se non di più».
In media, è stato calcolato che ogni cuoco social – sono concentrati essenzialmente tra Milano, Roma, e Torino – porti a casa 194 euro netti ad appuntamento. E non è poco. Reclutare ospiti per la serata, di solito persone che vogliono allargare la loro cerchia di amicizie e provare un’esperienza diversa da quella del solito ristorante, è meno complicato si quanto si potrebbe immaginare. Facebook è il punto di partenza, ma ci sono siti che si sono specializzati sul tema come Le Cesarine, Peoplecooks, Eatwith, Vizeat e Kitchenparty e Gnammo, il primo a portare il social eating in Italia.
Per evitare polemiche e fraintendimenti, Gnammo ha pubblicato sul suo sito un codice etico in cui si chiarisce che il social eating «è un evento che si svolge in una abitazione e non può avere carattere abituale, non può svolgersi utilizzando strumenti professionali e non deve avere organizzazione imprenditoriale» mentre l’home restaurant è «un ristorante che è una casa di civile abitazione nella quale si organizzano eventi abitualmente, con strumenti professionali o con organizzazione imprenditoriale». Certo la differenza è labile. «Così abbiamo fissato un paletto: i nostri cuochi possono far parte della community finché non raggiungono i cinquemila euro di reddito all’anno. Superata quella soglia, scatta la segnalazione per attività professionale», spiega il fondatore Gian Luca Ranno. «Finora – prosegue – non ci è mai successo».
Sarà, ma intanto il Governo ha preso posizione. Ad aprile, infatti, il ministero dello Sviluppo economico si era espresso proprio sugli home restaurant stabilendo che vanno considerati locali a tutti gli effetti. E, dunque, devono rispettare un elenco infinito di norme, a partire da quelle igienico-sanitarie legate alla somministrazione di cibo e alla sicurezza degli spazi. E non è finita. Qualche giorno fa, il deputato del Pd, Enzo Lattuca ha depositato alla Commissione attività produttive della Camera, il testo di una risoluzione per risolvere in modo chiaro e definitivo il problema. «Le norme sugli pubblici esercizi parlano chiaro – sottolinea -. Si tratta di farle rispettare in modo tale che gli enti locali non si trovino più in difficoltà di fronte a fenomeni nuovi ma in grande espansione come questi».
Intanto anche Ranno e company sono al lavoro con tecnici del Mise per stabilire una volta per tutte cos’è il social eating e quali sono le sue caratteristiche. «Ciò che vogliamo fare capire ai ristoratori è che anche loro possono beneficiare del nostro metodo di azione». Entro fine anno, Gnammo lancerà infatti il social restaurant: i locali potranno organizzare eventi spot, aperti soltanto a un numero definito di ospiti, scelti attraverso il sito di Gnammo. «Li abbiamo immaginati come momenti promozionali, per farsi conoscere e allargare così la loro clientela».