dal sito Gambero Rosso: …. ” vogliono diventare chef e nessuno vuolededicarsi al management della ristorazione: ciò è una grave mancanza”. Parola di Luigi Cremona. Non è l’unica figura di cui si ha già un esubero, secondo il critico e curatore delle guide Touring Club. “In questo momento non c’è tanto bisogno di critici, i migliori forse sono quelli più anziani per l’esperienza accumulata” ha argomentato Cremona facendo presente come il sistema Italia, per quanto concerne la ristorazione, non migliori certo con la presenza crescente di recensori.
I limiti dell’Italia
Nel mondo, a detta del critico, la nostra cucina sta vivendo un boom: “Il dramma è che si tratta di un italian sounding. Avanza l’Italia come nome e come titolo retto da proprietà costituite da investitori americani o asiatici, mentre a livello di food and beverage management sussiste praticamente un monopolio straniero”. Il motivo? Non ci sono giovani formati per questo settore e mancano i cuochi dotati di audacia imprenditoriale: “I nostri chef spesso sono bravissimi e geniali per passione e attaccamento al lavoro, ma” ha osservato Cremona “fanno i fenomeni quando hanno appena trenta persone ai tavoli. Per loro la qualità è legata a numeri bassi, ma a livello mondiale non funziona così”. Le criticità riguardano anche l’universo della produzione agroalimentare: “Manca personale capace di portare i prodotti nel mondo, manca la logistica, la conoscenza delle lingue, delle regole doganali e delle modalità di distribuzione delle merci. L’Italia non è carente di chef, ma di professionisti in grado di gestire prodotti e ristorazione in termini quantitativi accettabili. Infatti, le grandi catene alberghiere avrebbero bisogno di profili come questi”.
Il resto del mondo
L’esperienza di Cremona è molto legata ai viaggi all’estero (oltre 70 quelli fatti finora, all’appello manca solo l’Australia): “Fuori dall’Europa, la vita si svolge nei grandi alberghi da tre-quattrocento camere in su. Di fatto, un albergo da tremila stanze, se a pieno regime, è una città di medie dimensioni. A Dubai ho incontrato un executive chef italiano a capo di ventiquattro punti di ristorazione: alle sue dipendenze ha cinquecento cuochi capopartita e mette a segno un fatturato di almeno un centinaio di milioni di euro”. In Italia, società con una simile potenza di fuoco non esistono: “Wolfgang Puck ha fama di ristoratore italiano, ma è austriaco, ha 2800 dipendenti e ha ristoranti di tutte le fasce in tutto il mondo. Questo perché ha quella capacità imprenditoriale che qui manca”. Inevitabile la stoccata agli chef tricolore: “La più grande aspirazione è prendere le tre stelle Michelin con quattro tavoli, mentre in America la massima aspirazione è fare business con un’alta qualità pensando in grande. La famiglia Bastianich è un esempio”. Sorridendo, Luigi Cremona ha ricordato Fulvio Pierangelini, artefice del successo dell’ormai ‘defunto’ Gambero Rosso di San Vincenzo: “È un mio grande amico, ma per lui l’ideale sarebbe cucinare solamente per un tavolo da due coperti”.
Nuovi mercati da esplorare
Quali frontiere del business della ristorazione bisognerebbe esplorare? Salvo poche eccezioni, il vecchio continente balbetta di fronte a piazze come Cina, India, Brasile e Indonesia: “Sono le nazioni più popolose del globo qui ci sono aspettative alte, ma bisogna comprendere quale piazza sia più affidabile per un investimento a lungo termine”. La Russia finisce dietro la lavagna: “Mosca ha una bellissima ristorazione italiana, ma negli ultimi due anni ha vissuto una grave crisi a causa dei rapporti politici deteriorati e questo crea qualche imbarazzo”. Le realtà più competitive? New York e Hong Kong, mentre in Europa sono effervescenti Londra e Berlino, con un’emergente Polonia sospinta dalla crescita economica (“Qui i nostri prodotti sono ben visti”): “Per alcuni ci sarebbe pure la Turchia, ma con gli attuali problemi di stabilità bisognerebbe rifletterci”. Tornando a Manhattan e all’ex colonia britannica, Cremona ha lodato questi due ambienti per un fattore essenziale: “Sono situazioni interessanti per l’alto tasso di concorrenza, cosa che giova a questo settore e che manca a noi italiani. Rischia molto chi si cimenta in queste realtà, ma viene premiato chi ha qualcosa da dire”.
a cura di Gabriele Casagrande